ANNALISA FIORETTI

La determinazione di una vita

13 ottobre 2022

Descrivere Annalisa in pochi termini non è facile: alpinista, medico-chirurgo specializzato in malattie dell’apparato respiratorio, medico d’alta quota, mamma, ricercatrice e attiva promotrice di attività sociali. Abbiamo scambiato due parole con lei per saperne di più sul suo percorso.


 

Facciamo un veloce recap del tuo inizio: da dove è cominciata la tua passione per l’alta quota e l’alpinismo?

La mia passione è iniziata con mia nonna, nata nel 1912. Lei amava scalare e per poterlo fare prendeva l’autobus da Brianza e si recava nella zona dei Torrioni della Grignetta. Quello che mi ha sempre colpita è che nelle foto appare lei in gonna e questo mi ha sempre affascinata e motivata. Così, fin da piccola ho iniziato ad andare in montagna e negli anni dell’università mi sono iscritta a Medicina e poi ho eseguito il master in Medicina d'alta quota.

I miei primi ingaggi come medico di spedizione sono stati nel 2004 in Pakistan e al Circo Concordia e due anni dopo nella scalata del Cho-Oyu. Due esperienze incredibili che mi hanno fatto capire che anch’io volevo scalare. Le mie prime spedizioni come alpinista sono state nel 2011 sul Gasherbrum II (8.035 m) - dove sono stata coinvolta in due soccorsi a 6.000 m e a causa di una polmonite sono dovuta rientrare in Italia - e nel 2012 dove sono stata invitata come rappresentante italiana alla scalata del K2 per la via Cesen, per me un sogno che si realizzava! Purtroppo, il capo spedizione e amico Gerfried Goeschl è morto due mesi prima nel tentativo al Gasherbrum I ed è saltata la spedizione.
Nel 2013 ho tentato la prima femminile italiana al Kangchenjunga (8.586 m) come capo spedizione. Ho battuto traccia tutta la notte ma ad un certo punto sono dovuta tornare indietro a causa di alcune dita congelate. Non sono arrivata in cima ma ho raggiunto comunque il record italiano femmile su questa montagna arrivando a 8.450 m.Il Kangchenjunga è una spedizione davvero tosta: in quell’occasione 5 persone su 10 sono morte. L’impresa però non finisce qui, la mattina durante la discesa, ho incontrato 4 persone che non riuscivano più a scendere e così ho deciso di aiutarli. La discesa è durata 72h, a loro davo da mangiare neve e delle barrette che avevo nello zaino mentre io mangiavo solo neve. Arrivata in Italia, mi hanno diagnosticato un infarto della milza e quindi me l’hanno asportata.

Nel 2014 ho tentato il Lhotse (8.516 m). La caduta di un seracco, ha ucciso 25 persone e questo ha causato un blocco da parte del governo nepalese per cui la spedizione venne dichiarata sospesa. Nel 2015, la spedizione è stata bloccata nuovamente dal terremoto e sono dovuta intervenire come medico. Dopo quella vicenda il medico Canadese che ha lavorato con me ha ricevuto una medaglia al valore dal suo paese, mentre qui in Italia questa impresa è passata in sordina. Nel 2021 infine c’è stato quella che io chiamo la spedizione della “rinascita” dove ho tentato la scalata Pik Lenin in Kyrgyzstan.

Sembra quasi che una qualche forza non abbia voluto farti arrivare in cima. Però tu non ti sei persa d’animo, anzi, hai iniziato una seconda vita, corretto?

Si, corretto. Nel 2012, mentre con tre amici, canadese, danese e americano, cercavamo di scalare il GI per cercare il corpo di Gerfried, ho incontrato Greg Mortenson, lo scrittore di “Tre Tazze di Tè”, che mi ha presentato Sakina, una bambina Pakistana di 5 anni affetta da una severa cardiopatia. Mi sono così attivata per diffondere il suo caso e siamo riusciti a raccogliere la somma per farla operare in Italia e farla rientrare nel suo paese. Un’esperienza che mi ha arricchito molto e che mi porto nel cuore. In lei ho visto una speranza per il futuro, una giovane ragazza che ha voglia di studiare e apprendere e non potevo non sostenerla.

Nel 2014 ho iniziato a fare dei campi medici in Nepal. La situazione era davvero estrema, l’unico ospedale lì si trova a Kathmandu. Ci sono davvero molti ostacoli, dalla sanità all’alimentazione, perché a causa delle zone collinari e montane l’agricoltura è difficile da praticare e l’acqua non è di facile reperibilità. In seguito ho conosciuto un ONG con cui collaboro tutt’ora e da 4 anni abbiamo aperto un’infermeria per donne vittime di violenza in onore di un mio amico del Cai che purtroppo non c’è più.


 

Pensi che in qualche modo la tua formazione medica ti abbia aiutato a superare tante sfide e anche a salvarti a volte?

Assolutamente sì, ha salvato me e mi ha aiutata a salvare altre persone. Non tutti quelli che tentano gli 8.000 m sono professionisti, ma anche persone normali che si allenano tanto e risparmiano anni per poter affrontare queste imprese.

I pericoli durante delle scalate così importanti sono davvero tanti, secondo te cosa spinge una persona a intraprendere una simile impresa?

Per me è una spinta metà da medico e metà da alpinista. All’inizio è pura curiosità, poi nasce la voglia di portare il proprio limite più in là. La sensazione quando scali è dell’istinto di sopravvivenza, la fatica sfinente ti porta a voler tornare giù sano e salvo e quindi le emozioni le vivi dopo, quando finisce l’istinto di sopravvivenza.

Scalare un 8.000 m è il sogno di moltissimi professionisti e non. Qual è l’allenamento necessario secondo te?

L’allenamento per un 8.000 m è un’attività un po’ più intensa del normale ma comunque nella linea di altezze inferiori. L’allenamento per l’alta quota lo fai solo lì, inizi arrivando a 5.000 m e dopo a rotazione sali verso i diversi campi. Ad un certo punto quando non hai più sintomi - non hai mal di testa, hai trovato il tuo ciclo veglia sonno e ti senti bene - sei pronto per scalare. Solitamente ci vogliono 2 mesi per scalare questi giganti - il K2 e l’Everest anche 2 mesi e mezzo.

Uno dei grandi problemi di queste spedizioni, sono le grandi quantità di rifiuti. Come si fanno a smaltire?

Solitamente paghi una tassa all’agenzia che gestisce la spedizione. Questa cauzione è molto salata e ti viene restituita solo se porti indietro tutti i rifiuti. Purtroppo in quota non si decompone nulla e questo può causare oltre che dei problemi ambientali indiscutibili anche dei veri disagi per chi è lì. Pensa che l’acqua per cucinare è presa dai ghiacciai, quindi se è inquinata è probabile che ci siano dei malesseri generali: ci sono spedizioni saltate per questo motivo.

È una passione bellissima ma anche molto impegnativa, che ti porta lontana da casa per lunghi periodi. Come hai fatto a conciliarla con la famiglia?

A dire la verità…è stato complicato! Io ho iniziato a scalare prima della nascita dei miei figli e dopo il loro arrivo ci siamo inventati un blog da leggere la sera, lo chiamavano “il cinema”. Ad un certo punto mi sono portata via un pupazzo di mia figlia, mi è piaciuto molto averlo con me, soffrivo della lontananza con loro ed era un modo per sentirli più vicini. Quando sono riuscita a portarli in Nepal, hanno capito il motivo per cui stavo via tanto tempo: conoscere nuovi posti e culture ti arricchisce come poche cose al mondo e adesso anche loro vogliono sperimentare, viaggiare, scoprire e io ne sono davvero felice.

Secondo te, ci sono abbastanza donne che fanno quello che fai tu?

L’alpinismo è sicuramente un ambiente maschile. Negli ultimi anni molte donne si sono impegnate per dimostrare che noi possiamo scalare tanto quanto un uomo, io i miei 25 kg di zaino me li sono sempre portati da sola! Secondo me, scalare un 8.000 m è più una questione di testa che di allenamento e le donne sono generalmente più forti in questo. Dall’altro canto ti dico che essere in poche mi ha dato l’opportunità di stringere bellissime amicizie. Mi ricordo di un’alpinista Iraniana che ha intrapreso questa strada proprio per essere promotrice dell’emancipazione nel suo paese e per far vedere che uomini e donne possono essere uguali.

Parliamo di Kayland: com’è la tua esperienza col marchio e con i suoi prodotti?

Per l’alta quota ho avuto il piacere di provare le 6001. Devo dire che mi sono trovata davvero bene, sono comode e soprattutto mantengono bene il calore. Soffro molto di mani e piedi freddi e con altre calzature non ero mai riuscita a risolvere questo problema, invece con Kayland non ho mai avuto freddo ai piedi. Per abituarmi alla nuova calzata le ho utilizzate in diverse camminate tra il campo base e il campo 1 anche con attività di trekking più complicate, considera circa 16 km di sali e scendi e mi sono trovata molto bene.