Le diapositive scorrevano rapide nel buio della stanza, proiettando immagini di vette maestose e distese di ghiaccio immacolato. Lorenzo Negri guardava quelle fotografie con occhi sgranati, ascoltando i racconti di suo padre di terre lontane e di imprese leggendarie. In quelle notti, tra il tremolio delle luci proiettate sul muro, Lorenzo aveva sognato una montagna più di tutte: l’Alpamayo, la più bella del mondo.
Il padre di Lorenzo ci era stato negli anni ’90, insieme a Mariolino Conti, ma i due furono costretti a rientrare dopo aver raggiunto il campo alto per dei malori dovuti alla quota. La storia che però lega la sua famiglia a questa meravigliosa montagna inizia nel 1975, quando il fratello di suo nonno, Pino Negri, insieme a Casimiro Ferrari e una spedizione del Gruppo Ragni, aprì una nuova via sulla famosa parete SW.
Gli anni sono passati, il tempo ha cesellato la passione di Lorenzo, trasformandolo in un alpinista come il padre e il prozio. Accanto a lui, con la stessa scintilla negli occhi, c’è Alessia Civicchioni, fotografa e alpinista. Entrambi pronti per l’avventura della vita: l’Alpamayo,
All’aeroporto a salutarli in partenza per quell’avventura, c’è proprio il padre di Lorenzo, quasi come fosse il passaggio simbolico di un sogno.
Un volo attraverso tre continenti, scali a Parigi, Atlanta e infine Lima. Da lì, un autobus porta Lorenzo e Alessia a Huaraz, il cuore pulsante delle Ande Peruviane, a 3052 metri d’altitudine.
I primi giorni sono di acclimatamento, con una prima escursione che li ha portati alla famosa Laguna Churup, a 4450 metri, che si apre davanti a loro come un occhio di cristallo azzurro, testimone silenzioso del loro primo passo verso la loro impresa.
Dopo questa prima uscita, trascorrono ancora un paio di giorni a Huaraz per preparare il materiale, quindi partono verso il rifugio Ishinca e le prime cime a più di 5.000 metri. Il sentiero per il rifugio attraversa una lunghissima valle, e gli zaini pesanti non facilitano il cammino, ma Alessia e Lorenzo hanno proseguito, un passo dopo l'altro, fino a raggiungere il rifugio dove, dopo una cena in stile peruviano alle 19:30, sono andati a letto, esausti, ma eccitati.
La sveglia suona nel cuore della notte, alle due in punto. Il rifugio è immerso in un silenzio irreale, rotto solo dal suono ovattato del vento che scivola sulle pareti di ghiaccio. Lorenzo e Alessia, con gesti meccanici e precisi, si preparano.Una colazione veloce, poi via, fuori, nella notte glaciale. Il loro obiettivo è la vetta del Nevado Ishinca, 5530 metri di altezza.
La salita inizia dolcemente, ma la quota si fa sentire. L’aria è sottile, ogni passo richiede uno sforzo maggiore. Le gambe di Lorenzo sembrano di piombo, si fanno lente, pesanti. È Alessia a prendere il comando della cordata, tracciando la via con determinazione. Con la sua forza e il suo ritmo costante, lo trascina fino alla cima.
Il giorno successivo, ancora prima che il sole sorga, sono già in cammino verso il Nevado Urus, a 5420 metri. Stavolta Lorenzo si sente più leggero, il corpo sembra essersi adattato, le gambe rispondono con energia. La vetta arriva quasi in un lampo, senza il peso della fatica del giorno precedente.
Dopo la discesa al rifugio, recuperano le loro cose e si preparano al lungo ritorno. Attraversano la valle, passo dopo passo, ripercorrendo il cammino dell’andata con il loro sogno che sembra sempre più vicino: presto incontreranno l’Alpamayo. Infine, giungono a Pashpa, dove un amico li attende con la sua jeep. La strada verso Huaraz scorre veloce sotto le ruote.
Dopo alcuni giorni di riposo e preparazione, il grande momento è arrivato. Un arriero li guida con il suo asino fino al campo base. Il paesaggio sembra uscito dalle diapositive dell’infanzia: valli senza fine, guglie di roccia che si perdono nel cielo, il vento che sussurra storie antiche. Da lì, con l’aiuto di due portatori, raggiungono il campo alto a 5500 metri. Ogni metro conquistato è un pezzo di sogno che prende vita.
I primi due giorni scorrono in un tempo sospeso, tra preparativi e silenzi carichi di aspettativa. Il terzo giorno, finalmente, è il momento di lasciare il campo base e avventurarsi verso il campo alto, saltando il campo morena. Il ghiacciaio si apre davanti a loro come un labirinto di crepacci enormi, fenditure profonde che si allungano sotto i loro passi. Procedono con cautela, scrutando ogni movimento, ascoltando il respiro della montagna.
Quando raggiungono la crepacciata terminale, si trovano di fronte a uno dei punti più tecnici della salita: un salto verticale di ghiaccio di 15 metri. Lorenzo e Alessia si guardano un attimo, poi, senza bisogno di parole, si preparano. Concentrazione, precisione. Superato l’ostacolo, si fermano, il fiato corto, i cuori che martellano nel petto.
Ed è in quell’istante che appare. La parete dell’Alpamayo, la più bella, quella che fino a quel momento era rimasta nascosta. È lì, davanti a loro, imponente e sublime. Per un attimo restano senza parole, avvolti in un silenzio reverente. Il sogno che hanno coltivato per anni è a pochi passi da loro, ma la sfida più grande li attende ancora. Domani sarà il giorno decisivo, quello che, se tutto andrà come sperano, li porterà sulla vetta.
Dopo una cena veloce a base di cibi liofilizzati, si infilano nei sacchi a pelo. Il sonno è leggero, frammentato dall’adrenalina e dalla consapevolezza che l’attimo decisivo è ormai vicino. La sveglia squilla prima di mezzanotte, e alle 23:30 sono i primi a lasciare il campo, le frontali che fendono l’oscurità della notte.
Si muovono con attenzione, superando la crepacciata terminale che li immette nel canale della via basco-francese, l’unica percorribile a causa dei giganteschi seracchi che incombono sulla vetta. Il silenzio è assoluto. Ogni tiro è una sfida contro il freddo e la fatica, otto lunghi e gelidi tiri su ghiaccio da 60 metri. Poi, finalmente, poco dopo l’alba, i loro ramponi toccano la vetta.
Il mondo si spalanca sotto di loro, un oceano di nuvole e picchi innevati. La gioia è incontenibile, le emozioni esplodono in abbracci e sguardi increduli. Un attimo e poi ecco che la montagna chiama ancora, e sanno che è tempo di scendere.
Iniziano le calate in doppia, il ritorno attraverso il ghiaccio che li ha messi alla prova. Una breve pausa al campo alto per riprendersi, poi, senza perdere tempo, riprendono la discesa fino al campo base. Qui, nell’abbraccio della vallata, trascorrono l’ultima notte in tenda, circondati dalla bellezza silenziosa delle Ande.
All’alba, con il cuore colmo di soddisfazione, riprendono il cammino. Ogni passo li riporta verso Cachapampa, ogni metro percorso è un addio e una promessa. Questo è solo l’inizio di un nuovo sogno. Perché le montagne non sono solo cime da conquistare. Sono storie da scrivere, memorie da onorare, sogni di chi ci ha preceduto da realizzare. E ora una nuova storia, una nuova avventura li aspetta.